La mietitura del frumento e l'inizio delle vacanze estive
È terminato l’anno scolastico e nelle famiglie si comincia a progettare concretamente il dove e il quando si potranno collocare le vacanze estive; per i ragazzi più avanti negli anni è il momento di fare progetti per vacanze o viaggi autonomi dal resto della famiglia, possibilmente in compagnia di amici e amiche coi quali condividere il piacere della scoperta ed il senso di libertà dal controllo stretto dei genitori. Ed è con questi pensieri che rivedo le mie estati di oltre cinquanta anni fa, quando era lontana per me e per molti la possibilità di progettare un qualsiasi viaggio esotico o una vacanza al mare e ai monti, per pure ragioni economiche e non certo per mancanza di fantasia.
Già dal primo giorno di vacanza, con un piccolo bagaglio che comprendeva inutilmente libri e quaderni per i compiti, salivo sul treno per Mantova e scendevo alla solita stazione di Torre de’ Picenardi; negli anni dell’infanzia mio padre affidava la sicurezza del mio viaggio direttamente ai colleghi ferrovieri che facevano servizio su quel treno.
Una volta arrivato, correvo dalla zia Giacomina nella cascina che sarebbe diventata per tutta l’estate il mio piccolo mondo da esplorare con curiosità; la prima cosa che facevo appena arrivato era di mettermi scalzo ed in tenuta da campagna, l’abbigliamento che si poteva sporcare senza problemi, e uscivo per ritrovare persone e cose che avevo lasciato la precedente estate.
In campagna erano i giorni nei quali ci si preparava alla mietitura del grano, con l’attenzione che la spiga non fosse troppo secca al punto da perdere il grano durante il raccolto e la formazione dei covoni, e la speranza che al momento opportuno i Petecchi, la famiglia che storicamente in paese prestava la sua opera con i macchinari per le lavorazioni agricole, fossero disponibili.
Così mi trovavo subito immerso nel pieno delle attività all’aria aperta che tanto mi piacevano: e il giorno della mietitura stavo con i contadini che precedevano la macchina “mietilegatrice” per sollevare il più possibile le spighe eventualmente coricate dal vento e la seguivano per aiutare la formazione di covoni ben legati con lo spago. Terminata la mietitura, i covoni venivano ammucchiati per essere pronti ad un rapido carico sul carro per il trasporto in cascina ed anche per proteggerli il più possibile nel caso di qualche improvviso acquazzone.
Da tutte queste attenzioni emergeva il rapporto quasi sacro del contadino col suo raccolto: per lui il grano rappresentava il pane quotidiano con un valore che forse oggi, in epoca di benessere, non riusciamo ad immaginare, ed era disposto a fare il massimo perché nemmeno una spiga andasse sprecata.
Non bisognava perdere nemmeno un chicco di grano
Ottorino, con un inaspettato spirito evangelico e armato di messoria (la mesúura), rifaceva tutto il percorso della mietitura per raccogliere una ad una le spighe rimaste sul terreno e legarle in nuovi preziosi covoni; io, con altri bambini, mi sentivo adatto per questa ricerca (restupiàa) e mi impegnavo, come in una gara, per trovarne più degli altri.
L’unico problema era rappresentato dal fatto che volevo camminare scalzo come tutti ed era dura da reggere l’esperienza: venivo dal lungo inverno cittadino, sempre con le scarpe ai piedi, e dovevo quindi camminare cercando di coricare con il piede gli spuntoni (i spròch) della spiga tagliata; quando non ci riuscivo erano guai.
Tornando a casa cercavo, con scarso successo, di nascondere alla zia i piedi sanguinanti, immergendoli nel mastello di acqua messa al sole a scaldarsi per essere pronta al bagno serale: il tempo avrebbe provveduto a formare sotto i piedi una specie di “suola” resistente formata da pelle indurita.
Nel frattempo in cascina veniva liberata “la barchèsa”, sotto la quale sarebbero stati ammassati i covoni affinché la paglia seccasse al meglio in attesa che la trebbiatrice dei Petecchi fosse disponibile.
Erano tutte attività nelle quali noi ragazzi ci lasciavamo coinvolgere – a volte mal sopportati dagli adulti –, con il sentimento di sentirci importanti nel ciclo dei lavori che la natura richiedeva in campagna.
In quei giorni si guardava il cielo con la speranza che fosse clemente e lasciasse il tempo, per chi doveva provvedere al trasporto in cascina con il carro trainato da una coppia di buoi, di farlo tranquillamente senza dover attendere che il sole asciugasse i covoni eventualmente bagnati da un acquazzone improvviso, evento purtroppo normale nei caldi mesi di giugno.
Più avanti negli anni, e ancora oggi, mi sono chiesto come mai quel tipo di vacanza presentasse una così forte attrattiva su di me; forse era perché non avevo alternative se non quella di rimanere in città e quindi potevo ritenermi fortunato nel poterla fare; oppure perché mi dava soddisfazione sentirmi attivo, e forse utile, in un ambiente diverso da quello della restante parte dell’anno; altrimenti, ed è la versione che oggi più mi convince, sentivo di trovarmi in un ambiente amico, tra persone che mi volevano bene e che mantenevano un tasso di genuinità che forse oggi non esiste più nemmeno in campagna: la mia era una inconsapevole scelta agrituristica quando il termine non era ancora stato inventato... e posso confermare, a distanza di tanti anni, che quelle amicizie erano sincere e persistono ancora.
Un continuo andirivieni per il lento trasporto dei covoni in cascina
Cominciava il lento trasporto dei covoni di frumento, con la speranza che durasse il bel tempo e che il cielo evitasse di “piangere”; il carro trainato dall’unica coppia di buoi dell’azienda e condotto dall’esperto Pietro, faceva i suoi lenti viaggi per essere caricato nei campi e scaricato subito dopo sotto la barchessa in cascina, concentrando le operazioni nelle ore calde della giornata e ottenere così che il sole asciugasse la rugiada notturna.
Questa operazione prevedeva il continuo andirivieni delle persone disponibili, comprese le donne di casa, tra la cascina e i campi a volte abbastanza lontani come quelli di S. Lorenzo, perché erano sempre le stesse che dovevano caricare e scaricare tutti i covoni. Noi ragazzi sfruttavamo il viaggio di andata a carro vuoto per farci trasportare fino al campo e poi, ricordo che Pietro ce lo aveva richiesto, ci impegnavamo ad aiutare la pazienza della coppia di buoi, scacciando il più possibile la gran quantità di tafani che, nonostante i nostri sforzi e il continuo dimenare della lunga coda delle due bestie, riuscivano a pungerne la pelle coriacea, facendola sanguinare: si cercava così di farli restare calmi, in quei giorni di lavoro pesante sotto il caldo sole di giugno.
Era un periodo nel quale bisognava saper bene come, quando e con che cosa alimentare queste bestie (assolutamente niente erba che veniva impedito loro di brucare con delle museruole) e quanto farle bere, onde evitare che si gonfiassero per una fermentazione troppo forte che impediva loro di ruminare correttamente, col rischio di farli morire: e, nella dimensione economica della piccola azienda, un fatto del genere avrebbe rappresentato una tragedia difficilmente superabile.
Mi è capitato, per fortuna una sola volta, di essere presente in cascina durante un evento del genere e ricordo come l’atteggiamento fosse paragonabile all’attesa di un prossimo lutto che avrebbe toccato direttamente la famiglia; era un andirivieni di persone che uscivano dalla stalla scuotendo desolatamente il capo, particolarmente scoraggiati. Quei momenti venivano gestiti dalla Virginia, la “residùura” dell’azienda che, tutta sola e solo lei, si chiudeva nella stalla per un rito sconosciuto, che nel tempo non sono mai riuscito a ricostruire, composto forse di preghiere o di azioni di tipo pagano, la fantasia mi suggerisce di tutto, che mi veniva riassunto dicendomi che andava a “toccare” le bestie.
In quella occasione il guaio si è lentamente risolto, senza nemmeno che dovesse intervenire il veterinario a pungere eventualmente il ventre dei buoi per far uscire i gas della fermentazione...ed è stata festa, festa grande con la zia Giacomina “costretta” a stappare un paio di bottiglie vecchie di nero e spumeggiante lambrusco.
Stipati i covoni arrivava l'atteso giorno della trebbiatura
Finalmente tutti i covoni erano in cascina, stipati nella barchessa e pronti per la trebbiatura dalla quale si sarebbe capito esattamente quale era stata la resa di frumento per ogni pertica.
La vigilia del giorno stabilito, i Petecchi trasportavano nell’aia l’imponente trebbiatrice, la pressa per la paglia e il trattore attrezzato con la grande puleggia adatta a far funzionare contemporaneamente le due macchine; il tutto veniva predisposto per poter avviare la trebbiatura molto presto il mattino successivo.
Quel giorno venivano reclutati amici, parenti e vicini per dare una mano in una delle tante mansioni; nessuno si presentava a torso nudo, nonostante il caldo e il ricordo delle immagini di Mussolini che alimenta di spighe la trebbiatrice, rese popolari dalla Domenica del Corriere: la trebbiatura produceva una sottile polvere pruriginosa, che si appiccicava alla pelle producendo un fastidioso impasto col sudore.
All’alba veniva avviato il rumoroso trattore che non dava la sveglia a noi ragazzi: eravamo infatti già in piedi da tempo, desiderosi di partecipare in qualche modo all’importante giornata.
Cominciava un metodico lavoro “a catena” che partiva dal passaggio dei covoni sul ripiano di un carro agricolo, posto a fianco della trebbiatrice, per facilitare colui che doveva trasferirli in alto dove c’era chi sapeva scioglierli, tagliando lo spago giallognolo, e alimentare la macchina con ritmo e gradualità; cominciava a scendere nella “mìna” il primo frumento che veniva toccato da molte mani per guardarne meglio la consistenza, sentire il grado di umidità ed “emettere” un primo giudizio sulla qualità, giudizio che poi sarebbe emerso con precisione al momento della consegna al Consorzio Agrario, per stabilirne così il valore commerciale.
In fondo alla catena del “bàter” (trebbiare), c’era la paglia che l’apposita macchina, alimentata da un doppio giro di filo di ferro opportunamente fissato dall’addetto mentre la paglia era compressa, la imballava in pesanti parallelepipedi (le bòtule): a fine trebbiatura sarebbero stati insilati nella barchessa liberata dai covoni e messi a riquadro per contenere la pula (èl lùch), importante base di atterraggio morbido per i nostri successivi salti che facevamo buttandoci dalla catasta di bòtule. Le donne più anziane erano impegnate a portare da bere a tutti vino misto ad acqua fresca del pozzo, e a preparare da mangiare per quando la trebbiatura fosse terminata.
Io, come tutti gli altri ragazzi, una volta finito tutto dovevo “subire” il classico bagno nel mastello pieno d’acqua scaldata dal sole e, dopo una veloce cena, andavo di corsa a letto, stanco morto ma felice e col sentimento di aver contribuito a produrre quel frumento: con questa “grande avventura”, si chiudeva il mio primo mese di vacanza!
Tutte le fotografie sono di Ernesto Fazioli
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