30 ottobre 2022

Piccoli cimiteri di campagna, luoghi d'incontro e di fede

Visito raramente il cimitero di Cremona: ho tutti i morti sepolti in cimiteri di campagna e sono questi che frequento per un momento di ricordo e la posa di fiori che, con i loro profumi e colori, rendano meno triste il luogo “ultimo” su questa terra. 

Ma i cimiteri sono veramente tristi? Forse si tratta soltanto dell’idea sempre più diffusa in un mondo come il nostro che cerca di esorcizzare la morte con tutti i mezzi, magari buttandosi in un carnevale di finta allegria, affollato dagli spettri di una morte pagana, per la festa di Halloween.
Così bisogna adeguarsi e comperare zucche, nemmeno buone per fare i tortelli, intagliarvi una maschera da far risaltare nella notte con una candela accesa posta all’interno e poi esporla contro gli spiriti maligni; capita di vederne spuntare anche dalle finestre di asili e scuole: vorrei chiedere agli insegnanti se abbiano mai provato a parlare serenamente della morte ai bambini, magari in occasione di qualche lutto che colpisca uno di loro, valorizzando la memoria ereditata e trasmessa da chi li ha preceduti nell’esperienza della vita. 

Ho cominciato a portare con me i figli, ancora bambini, nelle visite ai cimiteri e non ho mai riscontrato in loro reazioni di paura o di sgomento, anzi a volte ho dovuto rincorrerli fra le tombe mentre improvvisavano una veloce gimcana per vedere il maggior numero di fotografie riprodotte nei tondi delle lapidi e ricordo ancora quando il primo, ancora molto piccolo, mi ha chiesto cosa ci facesse il nonno dietro il muro con la lapide. – “Dorme assieme a tutti gli altri”, è stata la mia risposta. 

Le visite sono sempre state un’occasione di incontro con persone del paese, quasi esclusivamente donne, che volevano guardare i miei figli, saperne il nome e far loro qualche complimento, prima di riprendere le usuali conversazioni con le altre donne che in certi periodi trasformano il cimitero nel loro luogo di incontro quotidiano. Quante volte ho ascoltato con curiosità le loro conversazioni vicino alle tombe dei reciproci parenti, in prevalenza mariti, mentre li trattavano da vivi facendoli entrare direttamente nella conversazione e instaurando un continuo colloquio con la naturale certezza di “un dopo” che li vedrà ancora assieme. 

Ricordo una signora che ripeteva con insistenza alle amiche: “èl mée Màario l’è stàt èen bèl acidèent, ma...insùuma...” come per dirgli ancora una volta, in un dialetto efficacemente intraducibile, che gli aveva sempre voluto bene nonostante tutto. 

Altre parlavano direttamente al defunto aggiornandolo, in un dialogo semplice che la morte non era riuscita a spezzare, dei guai più recenti, per poi salutarlo passando il fazzoletto sulla ceramica del ritratto in un gesto di pulizia, fatto per nascondere la quotidiana amorevole carezza. 

Credo che questo sia il culto dei morti che dobbiamo mantenere anche nelle prossime generazioni, per provare la grande consolazione che le certezze dei bambini sapranno darci chiedendo, come hanno sempre fatto: “Ma se dormono, quando si svegliano?” 

 

Giorgio Bonali


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