16 settembre 2022

Pere cotte: il ciclo e riciclo dei vescovatini

Un pensatore e antropologo inglese morto nel 1980, Gregory Bateson, ha scritto che “esiste un unico sistema le cui parti sono interconnesse... e ogni perturbazione portata ad una di queste parti, come ad esempio lo sfruttamento della natura, si ripercuote su tutto il sistema. La creatura che, per propri fini immediati, distrugge il proprio ambiente distrugge se stessa. La crisi attuale è crisi dell'uomo nell'ambiente: si tratta di una crisi culturale... Solo modificando questo assurdo ed egoistico atteggiamento mentale, si può sperare di uscire dalla crisi senza troppi danni, assicurando l'equilibrio e il benessere del più ampio sistema, o Mente, di cui siamo parte e che si identifica con un Dio che non si può ingannare”. 

Ma le leggi economiche impongono di eliminare i beni i cui costi di conservazione diventano più alti dei benefici attesi ed anche noi, come singoli cittadini, scartiamo una enorme quantità di alimenti e oggetti che potrebbero ancora essere utili. 

Alcuni dati statistici ci dicono che solo in Italia, ogni anno, sono 6 milioni le tonnellate di cibo che vengono scartate, una quantità che potrebbe sfamare circa 3 milioni di persone. Eppure veniamo da una civiltà contadina nella quale gli scarti definitivi erano ridotti al minimo: tutto veniva sfruttato fino in fondo o riutilizzato. 

Ricordo come i resti degli alimenti, quando proprio erano da buttare, servivano per nutrire il maiale, oppure tutti i ritagli di legno bruciavano per riscaldare, o come tutti gli altri prodotti diventavano merce di scambio; nelle nostre campagne, fino a qualche decina di anni or sono, non esisteva il servizio di raccolta dei rifiuti: eppure raramente si trovava sporcizia sparsa ovunque, come invece succede oggi. 

A quei tempi, specialisti nella “raccolta differenziata” di ferro arrugginito, stracci, vetro, pelli di coniglio essiccate e persino pelli di talpe che procuravano un piccolo compenso agli specialisti nella loro caccia, erano i Vescovatini. Arrivavano regolarmente con la bicicletta, che trainava un piccolo rimorchio molto leggero, in tutte le aie delle cascine annunciandosi col grido: “Gòo i péer cùut”, ho le pere cotte, pronunciato in puro dialetto di campagna, indicando con questo la disponibilità della frutta come merce di scambio per i materiali di scarto che gli venivano dati. Era una gioia per i bambini poter mangiare queste dolci pere di colore rosso scuro ed anche per i genitori che, senza attingere al misero borsellino, facevano contenti i loro figli e approfittavano del frutto per farlo accompagnare con un po’ di pane o di polenta abbrustolita, risolvendo così il problema della merenda. Questo ricordo mi spinge a rendere onore al merito dei Véscuadìin, i benemeriti che hanno inventato il “ciclo e riciclo”: l’AEM di Cremona ha dovuto solo aggiornarne l’idea. 

Giorgio Bonali


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti


Lilluccio Bartoli

17 settembre 2022 22:28

Da vescovatino mi permetto una puntualizzazione: lo strillo "Gòo i péer cùut” non poteva essere fatto da 'n vèscuàdìin doc in quanto non prevede, il lemma pera, nella sua pronuncia campagnola, la ée tipica cremonese da cicòon (vòol dìi dè cità, vedasi véen, citadéen) a favore del più ruspante e nustràan íi, ovvero píir e non péer. Infatti l'articolo parla di vescuadíin e non di vescuadéen, in questo rendendo al villano paisáan la sua allure di fiera contadinità.