22 gennaio 2023

Ricordare Luigi Tenco, il ribelle

Come si può oggi, a più di cinquant’anni di distanza, spiegare cosa abbia rappresentato per noi giovani di allora il cantante Luigi Tenco e come abbiamo reagito alla sua morte, senza cadere nella retorica? 

Non bisogna dimenticare che eravamo nel 1967, un anno prima delle rivolte studentesche e giovanili che hanno segnato il ’68, e che Tenco era per tanti di noi giovani il simbolo della ribellione e della tristezza, compagna della nostra adolescenza; già dal 1962, ancora prima di Bob Dylan, con le sue canzoni se la prendeva apertamente con il potere, al punto di farle escludere dalle programmazioni RAI. 

E poi il suicidio come ultimo disperato gesto di protesta; nei giorni successivi alla sua morte, monsignor Ercole Brocchieri direttore di “Vita Cattolica”, mi ha chiesto di scrivere un pezzo a commento del tragico fatto. 

Chiedo scusa al lettore se compio un’operazione poco elegante, citando alcuni passi di quella lettera aperta indirizzata al “Caro Luigi”, ma lo ritengo un sistema corretto per far capire oggi le vere sensazioni che possiamo aver provato allora, anche perché quello scritto ha ottenuto numerose e immediate approvazioni dal mondo giovanile. Scrivevo come lo considerassi un amico e che le sue canzoni erano le mie preferite e mi tenevano compagnia nei momenti di solitudine o di abbattimento. 

Lo ascoltavo cantare: “Guardati un pochino intorno/vedrai che il modo di ogni giorno/può darti più di tutti i sogni tuoi” e mi confortavo. 

Era “uno dei nostri”, sensibile come noi e con forti reazioni verso chi non ci capiva. “E per protesta ti sei ucciso; lo hai scritto nel tuo testamento: ...E gli occhi intorno cercano/quell’avvenire che avevano sognato/ ma i sogni sono ancora sogni/e l’avvenire è ormai quasi passato...”.

Questo dicevi un tempo e il tuo pessimismo riuscivo a capirlo, ma non fino a giungere al suicidio. I testi delle tue canzoni erano sobri e dignitosi, erano poetici e la poesia è vita, non morte. 

Quello che dicevi con le tue canzoni non era capito, non perché tu fossi peggio degli altri, ma perché eri migliore. Ed allora ci si deve uccidere perché non ci si sa adeguare alla stupidità corrente? No, assolutamente! E poi, come già ho detto, tu a qualche cosa servivi, la tua vita, il tuo lavoro non erano inutili: come minimo a me servivi. Sei stato preso nella morsa dei “commercianti di voci” e da loro non sei stato capito e per loro hai sacrificato la tua giovinezza, la tua poesia. 

Peccato che il tuo “sacrificio”, lo chiamo così perché immagino che nel tragico momento del suicidio, tu non abbia più avuto coscienza di quello che stavi facendo, sia stato dedicato ad una causa così stupida, inutile. 

La vita è bella anche con le sue malinconie, con le sue angosce: la vita è bella proprio perché è una lotta e tu... tu hai rinunciato a lottare. Peccato, veramente. Un gesto assurdo ti ha fatto incontrare con la Giustizia Divina e, spero tanto, anche con la Sua Misericordia: è l’ultimo augurio che posso farti. Con grande rimpianto ti ricordo”. 

Giorgio Bonali


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