Quel 9 maggio con Moro siamo morti un po’ tutti
In un mattino della primavera del 1978 ci colpì come una mazzata tra capo e collo, l’improvvisa notizia del rapimento di Aldo Moro e della tragica uccisione dei cinque uomini della scorta. Rimanemmo tutti come tramortiti da quel colpo improvviso che minava alla base tutte le nostre certezze, gli entusiasmi e la voglia di battaglie sia politiche che sindacali: di colpo il di- battito politico veniva sostituito dalla violenza estrema.
Nei giorni successivi durante la colazione prima di recarmi al lavoro, l’ascolto di “Radio Belva”, come veniva chiamato il giornale radio di Gustavo Selva che capitava nell’orario giusto, serviva per aggiornare le tante speranze e altrettante delusioni; l’incontro poi con i colleghi, ognuno dei quali aggiungeva piccole notizie o indiscrezioni lette sui diversi giornali, dava il segno perfetto di come il pensiero di tutti fosse rivolto alla stessa tragedia e con quale partecipazione fosse vissuta: rappresentavamo il campione di un intero popolo che stava vivendo quei giorni col fiato sospeso.
Purtroppo la notizia arrivò nella prima decade di maggio di quella terribile primavera, lasciando un segno indelebile in tutti, sia i politicamente vicini a Moro che gli avversari, e una domanda sospesa nell’aria: “E adesso cosa facciamo?” La decisione venne presa: si sarebbe svolta una manifestazione silenziosa per le strade e le piazze di Cremona, con un corteo sull’abituale percorso che, attraversando il centro città avrebbe portato tutti dal piazzale della stazione a piazza del Duomo.
E tutti noi di una generazione che aveva vissuto la passione della politica sin dalle esperienze dei movimenti giovanili nei partiti, ci distribuimmo i compiti: fui così incaricato di organizzare l’arrivo di centinaia di copie del “Popolo”, il giornale del partito di Aldo Moro, di ritirarle in stazione e di organizzarne la vendita lungo il corteo. Ci volle poco ad esaurirle tra la folla dei cremonesi.
Eravamo usciti dal lavoro senza permessi, liberamente, trovandoci poi fianco a fianco con i nostri dirigenti, tutti desiderosi di essere con gli altri: era come quando c’è un lutto in famiglia e, per superare lo smarrimento, si cerca di condividerne il dolore.
C’era tutta la città. Ricordo di aver visto la piazza del Duomo colma come forse mai mi era capitato di vedere: Cremona era presente tutta per testimoniare una corale condanna degli assassini che avevano ucciso un uomo simbolo della nostra democrazia.
Ci accorgemmo in seguito come quei delinquenti avessero ucciso anche una parte di noi che eravamo cresciuti, nel vivace clima post bellico, partecipando attivamente alla politica sin dai primi anni giovanili e che credevamo che le uniche armi consentite, fossero il dibattito ed il voto: quella barbara violenza ci aveva svuotato di ogni volontà; era come se un brusco risveglio avesse interrotto per sempre un bel sogno.
La foto è di Giuseppe Muchetti
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