Settembre di una volta, tempo di vendemmia
La zia Giacomina possedeva un vigneto sufficiente a produrre vino per tutta la famiglia: era tradizione questa autonomia produttiva anche nel nostro territorio, per poter bere tutto l’anno del lambrusco scuro, corposo e genuino spillato direttamente dalla botte o, per annate eccezionali, in bottiglie che lanciavano un “pericoloso” getto di nera schiuma quando venivano stappate.
Allora le scuole riaprivano ad ottobre ed io per anni ho potuto partecipare alla vendemmia ed alla pigiatura fatta coi piedi nella grande bigoncia (benàsa) montata sul carro agricolo: per me era un vanto venire ammesso a pigiare (schisàa) con forza l’uva appena colta; e non importava se mi ritrovavo alla fine con piedi e polpacci irrimediabilmente neri, motivo di derisione in città ogni volta che mi dovevo spogliare per l’ora di ginnastica.
Ottorino era lo specialista del vigneto dalla potatura delle viti fino al periodo della maturazione dell’uva, periodo nel quale passava parte delle notti a far la guardia al vigneto per scacciare, oggi sembra incredibile, i ladri di uva.
La vendemmia veniva concordata con vicini e parenti affinché il giorno scelto non combaciasse con quello di altri, permettendo così di far conto sul massimo di mano d’opera. E poi la pigiatura e il caricamento di mosto e raspe nei grandi tini delle cantine per avviare il periodo della fermentazione durante il quale l’accesso al locale era proibito per non correre rischi coi gas che vi si formavano: solo Ottorino poteva entrare con la candela accesa che, spegnendosi, avrebbe segnalato il pericolo.
Il giorno stesso della pigiatura la zia pensava a noi bambini, facendo bollire a lungo una grossa pentola di mosto per ottenere quel delizioso “vino cotto” che, messo in bottiglia, sarebbe diventato la base per una gradevolissima bevanda durante l’inverno.
Finalmente arrivava il momento nel quale si riteneva completata la fermentazione e, attraverso un tappo forato (èl cucòon) inserito alla base del tino, il vino nuovo poteva essere spillato: si trattava di un vero rito al quale partecipavano anche i vicini, ognuno con la propria scodella bianca, per meglio osservarne il colore prima di assaggiarlo e valutare così la qualità con un giudizio che avrebbe condizionato la scelta del parziale imbottigliamento, dopo un periodo di “riposo” nelle botti che si trovavano allineate a fianco dei tini.
Il lavoro non finiva con questo perché c’era l’esigenza di sfruttare al massimo la produzione con la pigiatura di un po’ d’uva tenuta da parte, messa a fermentare assieme alle raspe estratte dai tini e a un po’ d’acqua, per ottenere il cosiddetto “vinello” che si sarebbe bevuto per primo assieme al successivo torchiato, prodotto finale del completo sfruttamento dell’uva.
Negli anni del primo dopoguerra, quando i controlli erano forse meno rigidi, ricordo anche una quarta fase: la distillazione delle raspe per ottenere una grappa, preziosa in tempi di scarse disponibilità economiche.
Oggi quel vigneto non c’è più: toglieva spazio alla produzione di mais!
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commenti
claudio
4 settembre 2022 19:00
E' sempre un piacere leggere "i ricordi" del Signor Bonali, che mi fanno tornare, oggi ultrasettantenne, con la memoria ai bei tempi della mia fanciullezza e giovinezza. grazie