5 dicembre 2024

La leggenda delle campane della chiesa sommersa dal Po che suonavano a Natale

Nell’area del medio Po è uno dei villaggi che maggiormente hanno subito, nel tempo, gli effetti del Grande fiume e, in particolare, delle sue piene. Un gruppo di case che conta appena poche decine di abitanti il cui nome, Stagno, la dice chiaramente lunga sulle sue caratteristiche. Nulla a che vedere, va precisato per i lettori cremonesi, con Stagno Lombardo, dal quale dista oltre una ventina di chilometri. In comune i due centri hanno il nome e qualche analogia storica come quella delle chiese “divorate” dal Po. Due quelle distrutte dal fiume a Stagno Parmense mentre a Brancere di Stagno Lombardo la furia del po si portò via la vecchia chiesa nel 1756.  Chissà che, col tempo, le due comunità possano pensare anche ad un gemellaggio che porterebbe benefici e visibilità ad entrambi. Ma questa è materia che spetterà, nel caso, ad altri. Oggi si parla di Stagno Parmense, frazione di Roccabianca. Un luogo che col Grande fiume ha sempre avuto ampiamente a che fare. Una di quelle terre in cui l’Ave Maria del mattino, così come quella del vespro e il mezzogiorno suonano, per così dire, due volte, intonate dal campanile della chiesa locale ma anche da quello della dirimpettaia chiesa di Motta Baluffi, vista la particolare vicinanza tra i due centri. A Stagno due volte il Po, come accaduto nel caso della vicina Polesine Parmense (in passato Polesine di San Vito) come già anticipato si è portato via, nel corso dei secoli, due chiese e da questi fatti la storia si è mescolata, in modo mirabile, con la leggenda. Leggenda secondo la quale per Natale suonano le campane sommerse nel fiume. Ne ha sempre parlato la gente del posto; ne parla e lo descrive diffusamente nientemeno che il padre dell’etnologia parmigiana, l’indimenticato don Enrico Dall’Olio nel suo Leggende Parmigiane, straordinaria, preziosissima e speciale raccolta di antiche fiabe (di quelle che un tempo, d’inverno, la gente semplice e laboriosa della campagna si narrava stando seduta nelle stalle, come in un presepe, sorseggiando talvolta qualche bicchiere di vino corposo regalato dagli antichi filari di viti che adornavano le terre del Po) sostenuta dalla Fondazione Cariparma e pubblicata, una prima volta, nel 1995 da Grafiche Step. Raccolta impreziosita dalla maestria grafica di Alberto Nodolini e dalle magnifiche illustrazioni di Peppo Monica. Una “pietra miliare”, quella scritta da don Enrico, che non può e non deve mancare nelle librerie della gente del fiume, dell’una e dell’altra riva.  Una leggenda, quella di Stagno, che come spesso accade è nata dalla storia. Storia che, per Stagno Parmense, getta le sue radici già all’epoca romana. Infatti nel 1841, durante i lavori di realizzazione dell’argine maestro, vennero alla luce numerosi sepolcreti composti da grossi mattoni coperti con embrici e contenenti ossa umane con il capo rivolto verso oriente. Dettaglio, questo, tipico dell’usanza pagana. Oltre alle ossa, anche lucerne, ampolle, armille, fibule, vasi, anelli, spille, medaglie e monete d’argento e di rame di imperatori romani del periodo compreso tra il 37 dopo Cristo e il 360, vale a dire da Caligola e Costanzo II. Anticamente il cimitero era situato nel quartiere Motta, davanti ad una cappellina dedicata alla Beata Vergine di Caravaggio, sorta all’inizio del secolo XIX sull’area di un’altra cappella dedicata invece alla Beata Vergine della Salute che, per forma ed antichità, era ritenuta dalla popolazione un tempietto romano. Durante i lavori di costruzione di un altro argine (voluto per difendere Stagno dalla continua erosione creata dal fiume) datati 1847, vennero inoltre alla luce un priapo in bronzo e monete degli imperatori Caligola, Massenzio, Costantino e Arcadio.

Nel 1889, infine, durante lavori in località Gattuzzo, tra la Brenova e il cavo Rigosa, furono scoperti altri tre sepolcreti simili ai precedenti. Scoperte importanti che tra l’altro dimostrano che il Grande fiume, pur tra i mutamenti del suo corso, non raggiunse mai la linea dei sepolcreti ritrovati e, dal momento che i romani per consuetudine seppellivano i loro defunti in località sicure a settentrione dell’abitato, è facile capire che il popolo cui quelle tombe appartenevano doveva vivere nella zona di Tolarolo e Rezinoldo, dove sorge l’odierna Roccabianca. L’opera di bonifica attuata dal console Emilio Scauro dall’Appennino al Po intorno al 118 a.C. e l realizzazione dell’arteria stradale romana diretta a collegare Parma a Cremona (che in origine non seguiva un tracciato rettilineo) contribuì a mutare il volto di una zona che, da palustre e silvestre, vide fiorire una ordinata coltura agricola.

Il primo accenno ufficiale al paese si trova in un atto del 17 aprile 894 con il quale l’imperatore tedesco Arnolfo confermava al vescovo parmense Guibodo il possesso di vasti domini e, tra questi, un lotto di terreno a Soragna che era confinante da un lato, con i boschi di Stagno. Dal 1477 Stagno fece parte dei territori soggetti ai Pallavicino e tale rimase fino alla scomparsa dello Stato di Busseto, fatta eccezione per un breve periodo di supremazia dei Rossi (che già avevano dominato in precedenza) che nel 1481 si impadronirono del castello per servirsene con quelli di Roccabianca e i Torricella contro i Pallavicino. Stagno, il cui territorio inframezzato dal Po, si estendeva sopra una vasta superficie compresa tra il piaggione (Piardone), San Daniele Po, Torricella del Pizzo nel cremonese, e Tolarolo e Pieveottoville di qua dal Po, godeva un tempo di un certo benessere. Le terre oltre il fiume, che la Camera Ducale aveva concesso a livello a molti abitanti di Stagno, fornivano grano sufficiente a chi, attraversando mattina e sera il Po, vi si recava a coltivarle. Agricoltura, caccia, pesca e contrabbando erano di fatto le principali attività del paesino che fu per altro sede di Comune fino al 1806.

Per quanto riguarda gli edifici sacri, la già citata cappella della Beata Vergine della Salute fu senza dubbio il primo edificio sacro sorto a Stagno. Le antiche fonti non accennano all’esistenza in luogo di una chiesa, forse perché altre erano poste nei paesi vicini come Polesine dè Manfredi (luogo inghiottito dal Po con gran parte di Stagno).

Nel 1796 i terreni parrocchiali che si trovavano sulla sponda sinistra del Po passarono alla giurisdizione delle chiese cremonesi di Sommo Con Porto, San Daniele Po, Solarolo Monasterolo, Motta Baluffi e Torricella del Pizzo.

Come anticipato due chiese parrocchiali sono state distrutte. La prima, angusta e cadente, messa alla prova dal fiume, nel 1675 fu demolita per far posto ad una più ampia e decorosa. Dell’iniziativa si fecero promotori, il 13 marzo 1675 gli uomini e i deputati della comunità insieme al prevosto don Aurelio Scutari (prevosto a Stagno dal 1669 al 1693), ricordato come parroco esemplare, amato e stimato dalla sua gente per la bontà e le chiare virtù sacerdotali. Don Scutari, che nella realizzazione della chiesa ebbe appunto la capacità di coinvolgere uomini e deputati della comunità ed ebbe la consolazione di veder sorgere il nuovo tempio, per la realizzazione del quale si prese a modello la vicina chiesa di Roccabianca.

I lavori incontrarono dei momenti di sospensione per mancanza di mezzi economici ma, alla fine, vennero ultimati (e furono affidati al capomastro cremonese Giannantonio Avanzini) con il sacro edificio provvisto anche di organo, orologio e decorazioni. Ad abbellire la chiesa fu chiamato nientemeno che Ferdinando Galli Bibiena morto il quale nel 1743 l’opera fu ultimata dal figlio del celebre pittore. La chiesa, che nel 1800 distava circa un chilometro dal Po, non durò molto e infatti crollò tra l’ottobre e il novembre 1846 per corrosione delle acque del fiume Po. Alla fine gli abitanti di Stagno rimasero senza chiesa per circa vent’anni e la nuova parrocchiale, quella attuale, fu realizzata tra il 1863 ed il 1864 e venne aperta al culto nel 1865. Oggetto, per altro, di recenti ed importanti restauri, il sacro edificio conserva memorie tangibili della precedente chiesa distrutta dal fiume, come la pala dell’altare maggiore, raffigurante i patroni, i santi Cipriano e Giustina, realizzata da Ferdinando Galli Bibiena (1657-1743), un “Battesimo di Nostro Signore” (olio su tela d’ignoto pittore del secolo XVII) ed un bel confessionale in noce intagliato (di fine secolo XVII) con quattro colonne a spirale che sostengono una trabeazione sulla quale sono adattate cinque statuine che decoravano un antico pulpito, raffiguranti gli Evangelisti e Cristo alla colonna.

Da queste vicende storiche, legate alle chiese (in particolare la seconda) “divorate” dal fiume è nata la leggenda popolare, poi ripresa e scritta da don Enrico Dall’Olio (scomparso esattamente dieci anni fa, nel 2014, all’età di 85 anni) che, tra le altre cose, ha avuto lo straordinario merito di aver raccolto e trascritto, appunto, i racconti popolari, mettendoci il cuore, l’intelligenza, la pazienza di saper studiare, conservare e divulgare le tradizioni locali, i racconti, sia nelle valli dell’Appennino che nelle lande della pianura.

Ha avuto, don Dall’Olio, la grande capacità di raccogliere le testimonianze orali degli anziani, conservandole attraverso la scrittura, lasciandole così ai posteri, aggiungendoci l’amore che ha sempre avuto per le sue e nostre terre e, in particolare, per quelle valli che percorse in lungo e in largo durante la sua instancabile e preziosa missione di parroco, sempre in mezzo alla gente, e di custode degli antichi saperi. Lui, figlio di contadini della Bassa, parroco in villaggi di collina e di montagna, con i suoi libri ha dato vita a veri e propri atti d’amore per le terre del fiume e dei monti, con uno stile semplice e profondo al tempo stesso, senz’altro inarrivabile.

“Le leggende – scriveva lo stesso don Enrico – sono ‘piacevoli creature’ della fantasia popolare, o se volete ‘delicati ricami’ della storia di ogni paese, affidate molte di essere alla memoria dei più anziani. Per l’amore che nutro verso la mia terra, mi sono avventurato in questo affascinante mondo dell’immaginario, ho messo piede in questo pianeta dove la fantasia sovrana suscita utili riflessioni. Sono ‘bisciole’ di sapienza antica con il sapore e la fragranza inconfondibile della nostra terra parmigiana, incamminate come del resto tante altre tradizioni verso la dispersione e l’oblio; le ho radunate in questo libro, convinto di essere di fronte ad un bene culturale quanto mai prezioso da custodire gelosamente. Sono queste – scriveva ancora – le principali motivazioni a sostegno delle ‘Leggende Parmigiane’, curiose ‘passeggiate’ in un mondo popolato di diavoli e angeli, di guerrieri, di re e regine, di fate e di folletti, di streghe e di incantesimi che riconducono spesso a credenze remote, ad eventi storici, a fenomeni naturali, a fatti straordinari, arricchiti ulteriormente dalla fantasia popolare. Trasmesse fino a noi con un linguaggio semplice e piano, conforme allo spirito e al modo di vivere dei tempi lontani, permeati da fatica e povertà, comunque ricche di misterioso fascino, grazie anche all’abilità di chi le annunciava da una stalla all’altra nelle lunghe serate d’inverno; infatti quasi ogni paese dell’Appennino aveva i suoi cantastorie, retribuiti per ogni seduta con un fiasco di vino ed una micca di pane”.

Profondo, quindi, il messaggio di don Enrico che, rivolgendosi ai giovani “rivolti al futuro con una entusiastica e spesso affannosa ricerca della novità” e agli adulti “coinvolti nell’inarrestabile corsa verso il domani” evidenzia come le leggende, tra e loro pieghe, sempre annunciate quasi sottovoce e in modo suggestivo tendono a “esaltare la giustizia, il coraggio, il perdono, l’onestà, la prudenza, la fede, la trasparenze, e a biasimare l’ingratitudine, l’orgoglio, la violenza, la presunzione, la vanità e l’invidia”. Un messaggio di elevato spessore, un monito valido in ogni tempo, per tutti, nessuno escluso.

Venendo alla leggenda nata a Stagno, relativa alle campane sommerse in Po che suonano per Natale, ecco che prendendo spunto dalla storia delle chiese distrutte dal fiume, e dal fatto che il paese per almeno vent’anni rimase senza una propria chiesa, la fantasia popolare ha portato a raccontare che in una remota vigilia di Natale la furia delle acque sconvolse Stagno portando rovina e lutti al punto che anche l’Angelo che, sempre secondo la credenza popolare, veglia su tutte le chiese del mondo, atterrito abbandonò la guglia del campanile per salire verso il cielo cercando un luogo più sicuro. Ancora una volta il grande e vecchio Eridano, come accaduto in innumerevoli occasioni, aveva dimostrato il suo incontrastato dominio sulle sue terre, divorando uomini e cose, stendendo un ampio manto melmoso e solo poche persone in quella occasione si salvarono divenendo testimoni del fatto che la bella chiesa e la case circostanti si inabissarono in Po.

L’Angelo che sospeso a mezz’aria aveva a sua volta assistito alla catastrofe, andò oltre le nubi per poi prostrarsi davanti a Dio raccontandogli (anche se non c’era bisogno) quello che era accaduto, presentandogli le sofferenze di quella povera gente di campagma, vittime della furia del fiume che li aveva lasciati senza casa e senza chiesa e senza il suono delle campane che scandivano le loro giornate, il trascorrere del tempo, accompagnando le gioie e i dolori degli uomini.

Erano, insomma, parte integrante e importante della loro vita e l’accaduto li aveva a maggior ragione sconvolti. Inizialmente non pareva poterci essere rimedio e, alla gente, non erano rimasti che tristezza e sconforto, pianto e rassegnazione. Nonostante questo il popolo del fiume si diede subito da fare per recuperare e sgomberare i materiali e gli oggetti disseminati un po’ ovunque dalla furia del fiume.

I pochi superstiti ricordarono che quello che il giorno di Natale e, in modo sublime e misterioso, si ritrovarono uniti, nell’ora in cui in passato assistevano alla messa, sulle rive del fiume, laddove in precedenza si trovava la loro amata chiesetta. Presi dalla commozione si inginocchiarono e non lasciarono spazio ad alcun moto di rabbia ma, anzi, elevarono a Dio le preghiere e i canti della tradizione natalizia, baciando quella terra che aveva visto il sacrificio dei loro fratelli. D’improvviso le acque divennero trasparenti e il sole, più splendente che mai, illuminò il fondo del Po dove, come per incanto, apparvero la chiesa col suo campanile e le case, col silenzio e lo stupore delle persone che venne “rotto” da uno scampanio soave e dolcissimo, un concerto così melodioso che mai prima d’ora si era sentito.

L’autore di tutto questo non poteva che essere l’Angelo inviato dal Signore a scuotere le campane per alleviare il dolore della gente, infondendo loro nuovo coraggio e rinnovata speranza, lasciandosi alle spalle le prove date dalla sventura, animati invece dalla forza e dalla tenacia necessarie per riprendere subito a riedificare il loro villaggio e la loro chiesa, memori del fatto che con la fede, la speranza, il coraggio e la carità si superano i dolori e le sventure.

Una fiaba bellissima, nata dalla storia, contenente un grande messaggio, come accade per tutti i migliori racconti popolari. Chissà la gente del fiume, da Polesine Parmense a Stagno, passando per Brancere, per Cella, per Soarza e per tutti quei centri che, nei secoli, hanno visto le loro chiese distrutte dal fiume, il giorno di Natale non trovino un attimo per recarsi sul fiume, per recitare una preghiera, accendere un lume ed intonare un canto, magari da una sponda all’altra Forse sentiranno di nuovo, almeno nel cuore, il dolce suono delle campane sommerse: e tutto, ancora una volta, sarà reso ancor più meraviglioso dal Bambino che viene, anche sul Po.

Eremita del Po

Paolo Panni


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commenti


Lilluccio B

6 dicembre 2024 08:14

Scrivo, a proposito delle campane, in qualità di suonato come una campana. Anche a Brancere, le campane della chiesa "scaciüfàade" [vuol dire sommerse] dal Po (e poi dicono che il vino fa male, l'acqua no?) talvolta si odono. Paolino, òm dè Po, ricordato da un'epigrafe prospicente l'acqua e con scarsissima dimestichezza con quest'ultima preferendole il vino, pare ne udisse i melodiosi rintocchi, in base ai poderosi "scalfarotti*" bevuti.
*[bicchieri dalle misure sesquipedali da vuotarsi smodatamente senza temere ritiri della patente]
Del resto, al riguardo, quando ad Alessandro Manzoni, dissero che il vino era il 90% acqua, chiosò: "Da bùn? Ta mè dè 'na gràn brüta nùtisia".