17 dicembre 2023

La tradizione della gallina di Natale: créeste, còl, sàanfe e ciceròon da sperlecàase i dìit

In casa mia vigeva il più rigoroso conservatorismo alimentare. Già si sapeva cosa si sarebbe mangiato a Natale: marübéen e galìna cul pièen. Così era e così sarebbe sempre stato. Dei miei ricordi legati ai marubini, come anche ai tortelli della Vigilia, ho già scritto, ora è la volta della gallina di Natale. Come da quel racconto si sarà capito, in cucina faceva tutto e soltanto mia nonna Paolina, classe 1886, la madre di mio padre. Lei e suo marito Ettore abitavano con noi, avevano la loro stanza da letto subito alla sinistra dell’ingresso, per noi quattro fratelli assolutamente off limits. Nel tardo inverno del 1970 lei in quella stanza per una settimana intera riordinò, impacchettò, impilò forsennatamente tutta la roba sua e di mio nonno, disseminò foglietti esplicativi sui ripiani degli armadi e nei cassetti e quando ebbe terminato morì, il 7 marzo. Se lo sentiva proprio. Ma prima di allora nella ampia cucina di casa la padrona era lei, mia madre aveva un ruolo di aiuto solo se da lei assegnato: “Va’, va’, Ernestina, che te ghèet bèle i tóo guài”; i guai eravamo noi quattro, s’intende.

Però sotto le feste mia madre viveva il suo momento di gloria perchè a lei era ogni anno conferito l’incarico di procurare la gallina per il pranzo di Natale. Lei andava sempre da Péeder e io la accompagnavo. Péeder – l’ho sempre sentito chiamare soltanto in questo modo – era un contadino che dalla campagna portava le sue galline in città e le teneva, fino all’esaurimento, in una stanza situata nel palazzo che sta all’angolo dell’attuale piazzale dei pullman in via Dante. Una volta entrati, occorreva percorrere un intrico di corridoi e scale ma raggiunta la sua porta, si apriva la spettacolare visione dell’arredo, che prevedeva una sedia per l’attesa dei clienti, qualche secchio col pastone delle galline e sul pavimento paglia e sterco a volontà; nell’angolo più recondito c’era una branda per la notte perché, mi rammentava sorridendo vistosamente mia madre ogni anno mentre eravamo per strada, “Péeder èl dòòrma cun le galìne”.

Dopo i convenevoli, s’apriva il dialogo per l’individuazione della gallina giusta: come la fate, in quanti siete, può andare questa, altrimenti quest’altra che è più grossa… E alla fine Péeder rincorreva la malcapitata e la avvolgeva per bene, viva, in un sacco che finiva nella sporta di mia madre. Sì, la portavamo a casa viva perchè in seguito ci avrebbe pensato mio nonno Ettore, grazie a un robusto bastone stabilmente collocato in un angolo del nostro bagno; era in legno chiaro, ben spellato, liscio, di almeno tre dita di diametro. Quando era il momento, ossia al “via” dato da mia nonna con un secco “Ètore, la galìna!”, mio nonno (classe 1883) si alzava, ripiegava il giornale e deponeva la pipa. Neppure mio padre ha mai saputo spiegare perché, pur essendo all’anagrafe Giuseppe, da tutti fosse sempre stato chiamato Ettore. Ma a suo giudizio il motivo doveva risiedere nella sua famiglia di provenienza; lui era ferrarese, precisamente di Porotto, toponimo che evoca piene devastatrici del nostro grande fiume. 

Ad ogni modo, con la pazienza geneticamente trasmessagli dalle precedenti generazioni contadine costrette dalla natura ad attendere, il nonno Ettore si dirigeva sul luogo del delitto fingendo naturalezza; e con la gallina che, presa dalle zampe e a testa in giù, cercava di far valere come poteva le proprie ragioni tra movimenti scomposti e il protrarsi di versi. A noi bambini era vietato assistere al misfatto, intuivamo quanto accadeva dal brusco interrompersi dei versi. Con gli anni, però, avevamo trovato il modo di sbirciare dal buco della serratura della porta del bagno: sul collo della gallina appoggiato sul pavimento, il nonno Ettore collocava l’arma del delitto, il famigerato bastone, che bloccava alle estremità con i due piedi. Una trazione secca del collo concludeva l’esecuzione capitale. A questo punto il killer riportava in cucina la povera gallina a mia nonna che la appendeva a testa in giù dopo averle praticato con le forbici nel collo vicino alla testa alcuni fori da cui lentamente usciva il sangue. A tempo debito la staccava dal gancio e per prepararsi alla successiva operazione di spennatura, la metteva momentaneamente sul tavolo. Quello era il momento in cui noi quattro ci avvicinavamo con curiosità ad osservare da vicino quell’animale inanimato, ormai immobile dopo tanto dibattersi, e che poi finiva inesorabilmente anche per essere toccato. Così dalla circospezione iniziale con cui qualcuno azzardava un rapido contatto con un dito, si passava prudentemente ad una maggior confidenza, finchè tra le risate, sia pur sommesse come per non eccedere nella profanazione, si finiva coll’aprire il becco, schiacciare l’occhio e far tante altre schifezze lì per lì improvvisate. 

Lé, lé, pütéi, adèss bàasta!”, interveniva d’autorità mia nonna, preoccupata di forzare i tempi per non tribolare nella spennatura. Seduta sulla sua sedia, perché tra le tante c’era la “sua” sedia, dopo aver steso sulle gambe divaricate un ampio telo che giungeva a coprire anche un po’ di pavimento, vi sistemava per bene la gallina e colpo dopo colpo tutto lo spazio attorno alla sua sedia si riempiva di penne e piume. La cucina veniva in seguito infestata dall’odore prodotto dalla strinatura sul fuoco dei peli residui; avevamo una cucina in ghisa, alimentata a carbone, di quelle con gli anelli rimuovibili dal piano di cottura. A quel punto, col suo smaràss, la mannaia da macellaio attualmente ancora in mio possesso, il nonno Ettore assestava i colpi necessari a tagliare zampe e collo e col trinciapolli operava le giuste aperture per poter togliere tutte le interiora. Ricavato così lo spazio per il ripieno preparato precedentemente, mia nonna cambiava gli occhiali e si dedicava con perizia chirurgica alla cucitura della gallina con un grosso ago e lo spago. El magòon, el cóor, i pulmunìin estratti erano tutti per èl pùc della pasta, a cui lei aggiungeva, per rinforzarne il sapore, le puntìne de i’àale, il primo dei tre tratti delle ali; nessuno di noi in famiglia ha mai azzardato il benché minimo approccio a quel sugo, lei se lo faceva e lei se lo mangiava. Per non dire poi quando il giorno di Natale calava nel piatto il proprio indimenticabile poker d’assi che noi bambini guardavamo con raccapriccio tra mille smorfie: créeste, còl, sàanfe e ciceròon da sperlecàase i dìit. Come neppure posso dimenticare l’ingresso trionfale riservato alla gallina quando c’era mia zia Bruna, la quale immancabilmente solennizzava l’arrivo in tavola della portata battendo a tempo le mani e cantando più volte su una melodia popolare: “Taiàaghe èl cül e ‘l còl, ghe rèesta apèena i’àale!”. Vertici lirici ineguagliabili.

Nella foto: La mannaia da macellaio di Ettore (Giuseppe) Cariani. C’è chi la chiama smaràss, smarasìna, marasìna, smaràsa (da marrancio), oppure manarìin, menarìin, menéera (da mannarino), ma anche sügüròt. Oppure per i lavori di campagna era detta la fòrsa, o fòlsa… e chi più ne ha, più ne metta…

 

Maurizio Cariani


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commenti


Fiquet Françoise

27 dicembre 2023 08:41

Complimenti, Maurizio, per il tuo suggestivo racconto!
Anche noi avevamo l’abitudine di mangiare la gallina ripiena in brodo il giorno di Natale, ma a differenza di casa tua, la preparazione era un po’ più semplice perché l’acquistavamo già morta da un buon pollivendolo o macellaio della città.
La difficoltà per me, abituata com’ero stata in Francia a mangiare la gallina accompagnata da verdure lesse e panna normanna, era la preparazione del ripieno.
Per fortuna ho avuto una buona maestra nella persona di mia suocera Giannina, che mi ha insegnato il metodo migliore per « cucire » la gallina e non far uscire il buon ripieno a base di pan grattato, tuorlo d’uovo e formaggio grana stagionato, direttamente comprato in una delle migliori latterie della Provincia di Cremona, che mio marito girava tutta per lavoro negli anni 1970/90.