11 giugno 2021

Il tesoro di Piacenza (7))

Esistono delle micro-produzioni e delle storie che stanno dietro ad alcune etichette mitiche, che rischiano di scomparire. Un paio di esempi li abbiamo anche qui, vicino a noi, in quello che da sempre è il punto di riferimento produttivo per la città di Cremona: i Colli Piacentini.

Conosciute quasi esclusivamente per l'abbondante produzione di vini frizzanti, Gutturnio e Ortrugo in primis, le quattro vallate piacentine nascondono tesori sconosciuti e per molti versi inesplorati, che meritano di essere raccontati. A cominciare da Vigoleno, splendido borgo fortificato a ridosso del confine tra le province di Piacenza e Parma, a dividere simbolicamente la Val Stirone dalla Val d’Ongina, due vallate minori che ricadono sotto la denominazione più ampia della Val d’Arda.

In questo antico borgo si tramanda una tradizione di Vino Santo che risale almeno al XVII secolo, e che nonostante l’esiguità delle bottiglie prodotte rappresenta la punta di diamante di tutti i Colli Piacentini. Le uve impiegate sono autoctone ed esclusive di queste zone: Santa Maria e Melara le principali; poi Trebbiano Romagnolo e Bervedino a completare l’uvaggio, con l’Ortrugo recente intruso, peraltro contestato dai puristi.

Come detto, la sua storia documentata ha inizio nel 1826, in uno scritto del nobile Alberto Douglas Scotti, mentre la famiglia locale Mangiavacca conserva ancora oggi bottiglie datate 1848. Per tutta la seconda metà del 1800, e fino all’inizio del XX secolo, la sua produzione passa alla parrocchia del paese, che riceve dagli abitanti le uve, le appassisce nelle cantine del castello, e dopo tre anni di affinamento si ottiene un vino scuro, quasi impenetrabile, con netti sentori di mallo di noce, caramello, dattero e fichi caramellati. L’usanza vuole che sia dato in regalo alle altre parrocchie dei paesi limitrofi, o consumato durante le più importanti ricorrenze religiose (battesimi, matrimoni, ecc.).

A partire dal secondo dopoguerra la sua produzione subisce un repentino ridimensionamento, anche perché era sempre stata relegata all’autoconsumo e mai in un’ottica commerciale di vendita e distribuzione. Bisogna aspettare il 1998 per l’iscrizione del Vin Santo di Vigoleno alla DOC Colli Piacentini e addirittura il 2008 per vedere la nascita dell’Associazione del Vin Santo di Vigoleno, una sorta di Consorzio di Tutela del prodotto, ma basato sui numeri bassissimi.

Attualmente i produttori si contano sulle dita di due mani, e il loro portabandiera è sicuramente il giovane Marco Lusignani, forse l’unico ad avere una produzione numericamente significativa (parliamo comunque di non più di 1.500 mezze bottiglie). Altri nomi sono Sesenna, Perini, Massina, Visconti, Corsini, Molinari e Tomboletti.

Pochi chilometri a ovest, scolliniamo in Val Nure e raggiungiamo Albarola di Vigolzone, dove viene prodotto il Vin Santo da madre certificata più antica d’Italia. La storia qui è quella di una famiglia, i Conti Barattieri, e la loro volontà di produrre qualcosa di unico e irripetibile. Di origine veneziana, la famiglia Barattieri sbarca a Piacenza (pare in maniera rocambolesca) nel XV secolo, e ben presto diventa parte attiva della vita pubblica cittadina. E’ con il Conte Otto Barattieri che nel 1796 la produzione vinicola assume particolare importanza. Soprattutto, pare che si debba al rientro dall’America di alcuni membri della famiglia, la costituzione della “madre” del 1823, da vecchie botti che avevano contenuto bourbon, e da qui ha inizio la storia di un vino davvero mitologico. 100% Malvasia di Candia aromatica, che viene lasciata appassire nel solaio fino alla settimana precedente a Natale (da qui il termine Vin Santo), quindi viene torchiata e messa a fermentare nei caratelli della Vin Santaia, alcuni del 1800, senza nessuna aggiunta (niente lieviti, solfiti, ecc.). In queste botticelle scolme, caratterizzate dalla formazione della flor (sorta di patina batterica che protegge il mosto dall’ossigeno) inizia una lunghissima e faticosissima fermentazione (la concentrazione zuccherina è talmente elevata che inibisce il lavoro dei lieviti) che dura fino a 10 anni. Raggiunto un tenore alcolico che va dagli 8 ai 10 gradi, il vino viene imbottigliato è lasciato altri 2 anni a riposare nel vetro.

Il nettare che si ottiene è denso, torbido e presenta un ventaglio di sensazioni olfattive e gustative unico e irripetibile. Anche in questo caso la produzione è esigua (900 mezze bottiglie ogni anno) e la sua fama è proporzionale alla difficoltà di reperimento

Andrea Fontana


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