2 luglio 2024

MGA e UGA: quale futuro per il vino Italiano

Un paio di settimane fa abbiamo parlato delle MGA (Menzioni Geografiche Aggiuntive) del Barolo, introducendo un argomento molto sentito e molto partecipato nel dibattito tra gli addetti ai lavori.

VIsto l’enorme interesse che ha suscitato, quest’oggi voglio parlarti, amico mio lettore, amica mia paritaria, della situazione generale Italiana riguardo a questa “piccola rivoluzione silenziosa”, in cui molti, compreso il sottoscritto, ripongono tanta fiducia.

Intanto facciamo un doveroso passo indietro e cerchiamo di capire a cosa mi sto riferendo.

Nel 2010, la zona di produzione del Barolo, dopo un lavoro ventennale di mappatura, (fondamentale l’apporto del giornalista enogastronomico Alessandro Masnaghetti, vero punto di riferimento Italiano del settore) ha introdotto le cosiddette MGA, “menzioni geografiche aggiuntive”, che hanno ovviamente attirato le attenzioni degli addetti ai lavori e delle istituzioni, se non altro per l’enorme importanza che ha il Barolo nel mondo del vino Italiano.

E così, questa attenzione ha portato nel 2016 all’introduzione e alla normativa ufficiale delle MGA nel Testo Unico del Vino (poi revisionato nel 2020).

La prima cosa da dire è che le MGA sono state chiamate ufficialmente UGA (Unità Geografiche Aggiuntive), lasciando la possibilità a chi si era mosso prima del 2016 di continuare a chiamarle MGA.

Ma, al netto di questa piccola differenza, probabilmente ti starai domandando che cosa sono queste fantomatiche menzioni o unità geografiche aggiuntive.

Secondo il già citato Testo Unico del Vino, le MGA, o forse sarebbe meglio dire le UGA (l’ho già detto che preferisco di gran lunga la prima definizione?), sono appunto delle menzioni geografiche che si possono aggiungere in etichetta qualora tutta l’uva utilizzata per produrre quella determinata bottiglia provenga da essa.

Più specificatamente, le MGA sono sostanzialmente delle aree più piccole di alcune denominazioni (ad esempio comuni, frazioni, zone amministrative o microaree geografiche ben definite e delimitate) riportate in un apposito elenco, parte integrante del disciplinare di produzione della DOC di riferimento, che possono essere indicate in etichetta qualora, appunto, il vino presente sia ottenuto con tutta uva proveniente da quella determinata MGA.

E, cosa ancora più fondamentale, e che le differenzia in maniera sostanziale dai Cru francesi, le MGA non hanno nessuna classificazione di importanza e non prevedono nessuna norma specifica o più restrittiva rispetto al disciplinare di produzione.

Tradotto in soldoni, significa che per produrre un Barolo generico, un Barolo Ginestra (MGA di Monforte) o un Barolo Lazzarito (MGA di Serralunga) si sono rispettate le stesse identiche norme. E, soprattutto, non c’è nessuna indicazione che Ginestra sia più o meno buono di Lazzarito o del Barolo generico. Quest’ultima questione è demandata esclusivamente al gusto personale.

Probabilmente ti starai domandando allora a cosa serve indicare in etichetta una MGA, se tale informazione non è sinonimo di più o meno qualità.

Domanda legittima, alla quale cercherò di dare risposta.

In primis, l’utilità di una MGA è quella di rimarcare e sottolineare, con grande precisione, la provenienza di un vino, soprattutto, ma non solo, nelle zone di produzione molto ampie (pensa alle varie denominazioni territoriali tipo Colli Piacentini DOC, Trentino DOC, ecc.).
Ma l’aspetto più importante è che, se guardiamo Oltralpe, è indubbio che poter comunicare al consumatore la provenienza specifica di un vino, rispetto ad un più generico disciplinare, ha portato alcuni di questi vini ad essere considerati di maggior qualità, e di spuntare così prezzi anche di molto superiori ai vini più generici, se non altro per la scarsità della produzione.

Inoltre, e qui mi riferisco nello specifico al Barolo, la maggior parte delle MGA individuate (che sono 181), sono nomi storici già da molti anni presenti sulle etichette delle bottiglie, che gli appassionati conoscono e considerano già come di qualità più elevata.

Normare le MGA serve quindi a ufficializzare una consuetudine già diffusa, vale a dire quella di vinificare separatamente le uve delle zone maggiormente vocate, e permette anche a quelle non ancora riconosciute (ma che magari in futuro diverranno ugualmente importanti) di avere pari dignità rispetto alle “sorelle” maggiori.

Venendo brevemente alla situazione generale Italiana, è importante sapere che il Barolo non è stata la prima zona a introdurre le MGA, e ovviamente neppure l’unica.

Prima di Barolo c’è stato Barbaresco, primo caso in Italia, che nel 2007 ha individuato 66 MGA, sempre tramite il lavoro dello Studio Enogea di Alessandro Masnaghetti.

Poi, sempre restando in Piemonte, è stata la volta del Dolcetto di Diano d’Alba, che ha individuato 76 MGA, chiamate in gergo “Sörì” (da “soleggiato” in dialetto locale, ad indicare una particolare vocazionalità della vigna in questione); Dogliani, che nel 2018 ha ufficializzato anch’esso 76 UGA; Roero e Roero Arneis, con 160 UGA e infine Gavi, con 18 UGA (perlopiù comunali o di frazione di Comune).

Passando brevemente in rassegna le altre regioni Italiane, ecco di seguito i principali territori che hanno già adottato o stanno adottando le UGA, con l’avvertenza di ritenere questo elenco assolutamente impreciso e poco aggiornato: è incredibile infatti quanto ancora siano sconosciute queste classificazioni, anche all’infallibile lente d'ingrandimento di google, e quanta poca bibliografia esiste sull’argomento, anche sui siti ufficiali dei consorzi di tutela.

Quindi, a quanto mi è dato sapere, da nord a sud, abbiamo Valdobbiadene con 43 MGA (chiamate in zona “Rive”); Valdadige Terra dei Forti con 23 UGA; il Rossese di Dolceacqua con 38 UGA; il Chianti Classico con 11 UGA; il Verdicchio dei Castelli di Jesi (98 UGA) e il Verdicchio di Matelica (13 UGA); e infine l’Aglianico del Vulture con 70 UGA.

Per concludere: tante o poco che siano (dipende ovviamente dall’estensione territoriale di ogni zona di produzione, ritengo che sia importante che, soprattutto nei mercati maturi (e non sono convinto l’Italia lo sia, ma questo è un altro discorso), la comunicazione del vino faccia un ulteriore passo in avanti e punti a riconoscere le singole specificità di ogni Cru. Solo così, infatti, credo che potremo cercare di colmare il gap che ancora accusiamo nei confronti delle denominazioni estere (Francia su tutte, ma non solo).

Andrea Fontana


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