Lo stato di salute del Trento doc
Il mio lavoro di degustatore per la guida Slow Wine, quest’anno mi ha portato a partecipare alle degustazioni del Trento doc, una denominazione sicuramente significativa e sulla bocca di tanti. Succede sempre più spesso, infatti, che il consumatore di bollicine abbia una sorta di rifiuto nei confronti della denominazione Italiana di riferimento, il Franciacorta (che peraltro è anche geograficamente molto vicina a Cremona), e abbia invece una sorta di immagine idilliaca del Trento doc, motivo per cui ho voluto vederci dentro.
Ecco le mie impressioni.
STATO DELL’ARTE
Come già accennato, il Trento doc è una denominazione italiana decisamente significativa, la seconda più importante d’Italia per il metodo classico (dopo la Franciacorta).
I numeri parlano di circa 1.000 ettari vitati, 67 aziende e una produzione totale di 13 milioni di bottiglie (tanto per non fare paragoni, in Franciacorta abbiamo 2.800 ettari, 113 aziende e poco meno di 20 milioni di bottiglie).
Forse non tutti lo sanno, ma esistono due Trento doc (si fa per dire): i Trentodoc scritto tutto attaccato, vale a dire i prodotti delle aziende che aderiscono all’Istituto Trentodoc, il Consorzio di Tutela della denominazione, e i Trento Doc scritto staccato, vale a dire i prodotti delle aziende che rivendicano la denominazione senza appartenere all'Istituto volontario che la tutela.
E a proposito della denominazione, il Trento Doc si riferisce agli spumanti bianchi e rosati, ottenuti con il sistema della rifermentazione in bottiglia (metodo classico), realizzati in 74 comuni della Provincia Autonoma di Trento (praticamente la stessa superficie che coincide con la denominazione Trentino) da uve Chardonnay, Pinot Bianco, Pinot Nero e Pinot Meunier. La sosta minima sui lieviti è di 15 mesi per i sans année, che diventano 36 mesi per la versione Riserva. Le tipologie consentite sono praticamente le stesse di pressoché tutte le zone spumantistiche mondiali, vale a dire, partendo dal più secco, dosaggio zero, extra brut, brut, extra dry, dry e demi-sec.
LA DEGUSTAZIONE
134 i campioni degustati nella sede dell’Istituto Trentodoc, in cui erano presenti le tipologie fino al brut, suddivisi come classicamente si fa in una degustazione di metodo classico, vale a dire bianchi dosaggio zero sans année, millesimato e riserva; extra brut sans année, millesimato e riserva; brut sans année, millesimato e riserva; e poi la stessa suddivisione anche per la tipologia rosè. Di ogni campione, degustato rigorosamente alla cieca, conoscevamo l’uvaggio, il dosaggio e l’eventuale millesimo (e quest’ultimo è l’unico dato che io di solito tengo in considerazione).
I RISULTATI
I dosaggio zero sono stati indubbiamente la categoria più deludente. La tipologia è molto di moda, soprattutto in Italia, in virtù di una presunta “purezza” che a detta di chi la caldeggia, ha nell’assenza di zucchero in dosaggio una maggiore "naturalità" e caratterizzazione.
Al netto delle mie personali considerazioni su questa tipologia (che non è la mia preferita, lo ammetto), è indubbio che bisogna poterselo permettere, di non dosare.
Bisogna avere una materia prima di grandissima qualità. Un’uva ricca, organoletticamente matura, che dia origine a vini complessi, rotondi, di grande maturità di frutto (e non di zucchero, ovviamente).
Nei 31 campioni assaggiati a Trento non era così.
Si passava da corpi eccessivamente magri e sottili (la maggior parte) a costruzioni aromatiche inutilmente marcate dal legno, che è notoriamente asciugante e spesso astringente. Non sono mancati i campioni significativi (a mio modesto parere si contano in una mano), ma in media mi hanno piuttosto
deluso, forse anche a causa di aspettative troppo alte dettate dalla loro fama, a mio opinione ingiustificata.
Gli extra brut, al contrario, sono stati la categoria più convincente, a tratti entusiasmante.
Tra i 22 campioni sottoposti al nostro giudizio si sono manifestate le etichette più buone di tutta la degustazione, e sono fioccati punteggi altissimi, a ridosso e spesso anche al di sopra dei 90 punti, che è la soglia dell’eccellenza pura.
Personalmente, poi, considero la categoria extra brut come la più centrata, dove la minima correzione di zucchero consentita, amalgama e coordina tutte le componenti del vino (acidità, aromaticità, mineralità, dolcezza) e rende i vini molto più piacevole e goderecci.
Ed evidentemente non sono l’unico a pensarla così, visto che le etichette di Trento doc più blasonate, o comunque al vertice della gamma di molte aziende, ricadono proprio in questa tipologia (penso a Giulio Ferrari, Riserva Lunelli e Perlé Nero delle Cantine Ferrari; al Blauen di Francesco Moser; al Générale Dallemagne di Monfort, ecc.).
I brut sono numericamente la tipologia più percorsa della denominazione, e corrispondono, giustamente, al 70% dei calici di vino che vengono serviti in tutti i wine bar, enoteche e ristoranti della Regione.
E proprio questa loro capillare diffusione fa sì che i vini siano generalmente corretti ma forse un po’ anonimi, senza grandi picchi di qualità, tendenzialmente rallentati nella propria espressività da dosaggi, spesso, eccessivi. Non mancano anche in questa categoria picchi di eccellenza, soprattutto nelle riserve con parecchi mesi sui lieviti, ma la media dei sans année e dei millesimi giovani è stata, a mio parere, assolutamente sufficiente ma nulla di più.
E i rosè? Le bollicine rosé in Italia sono come il mare d’inverno: un concetto che il pensiero non considera (cit. il grande Enrico Ruggeri). E anche in questa degustazione ne ho avuto la conferma. Nella tipologia, infatti, abbiamo avuto sia il voto più alto di tutta la giornata (un bel 95, che ovviamente non ti posso dire, amico mio lettore, amica mia paritaria, a chi è stato assegnato) che quello più basso, segno di una produzione ancora ben lontana dall’aver trovato la propria identità e la propria strada.
In conclusione, per tornare al quesito iniziale, è davvero tutto oro quello che luccica? Davvero il Trento doc è una denominazione più interessante e significativa del Franciacorta?
Direi di no; ritengo che anche in questa zona (così come in Franciacorta, sia chiaro) ci sia ancora tanta strada da fare, soprattutto in termini di maggior individuazione delle uve da utilizzare per la tipologia (e di conseguenza anche delle vigne più adatte) oltre che a una maggiore definizione stilistica, in particolar modo per le versioni “base”, ancora troppo spesso imbrigliate da eccessive dolcezze.
E’ comunque innegabile che nel Trento doc si trovano alcune tra le etichette spumantistiche più significative dell’intera penisola, che hanno fatto la storia delle bollicine Italiane.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti