7 ottobre 2022

La nascita dei vitigni (60)

Durante questo nostro viaggio, da Cremona alla scoperta del vino, ti ho raccontato spesso, amico mio lettore, amica mia paritaria, delle principali produzioni Lombarde e delle regioni limitrofe.

E, di riflesso, ti ho elencato sovente e volentieri i principali vitigni coltivati. Ecco: l’altra sera, chiacchierando con amici, mi sono reso conto di aver dato per scontato il termine “vitigni”. Che cosa sono i vitigni? E quanti sono? E soprattutto, perché esistono?

Oggi ho pensato quindi di rispondere a queste domande.

Per farlo, è necessario fare una premessa e osservare brevemente il metodo di riproduzione delle piante.

La vite, come la stragrande maggioranza delle piante arboree, ormai da diverse centinaia di anni si riproduce per via vegetativa (o agamica).

Vale a dire che viene riprodotta utilizzandone una sua parte, che viene asportata dalla pianta originaria e poi impiantata in altro luogo (ad esempio un ramo fatto radicare nel terreno oppure una gemma innestata su di un portainnesto).

A parità di condizioni di coltivazione, la pianta che ne deriva sarà in tutto e per tutto uguale a quella originaria, avremo cioè una clonazione. Da questo punto di vista quindi ogni vitigno rimane sempre uguale a se stesso.

Ma se invece facciamo riprodurre una pianta per via sementifera, cioè impiantiamo nel terreno un seme ottenuto da due piante-genitori, la pianta che ne deriva avrà caratteristiche uniche che saranno la conseguenza dell’incrocio casuale delle caratteristiche delle piante genitori, esattamente come avviene per gli esseri umani.

Le piante ottenute da questo metodo di riproduzione per seme si chiamano incroci ed è il metodo utilizzato dalla natura e dall’uomo per dare vita ai diversi tipi di vitigni.

Abbiamo quindi, ad esempio, il Cabernet Sauvignon, che è “figlio” di Cabernet Franc e Sauvignon Blanc; oppure il Sangiovese, che deriva da un incrocio tra Ciliegiolo e Calabrese Montenuovo.

Tra gli incroci frutto del lavoro dell’uomo abbiamo invece, ad esempio, il Rebo (incrocio creato dal botanico trentino Rebo Rigotti, figlio di Merlot e Teroldego), il Muller Thurgau (incrocio creato dal botanico tedesco Hermann Muller, nativo del cantone svizzero di Thurgau, tra uve Riesling e Chasselas), e ancora il Manzoni Bianco (o Incrocio Manzoni, o Incrocio Manzoni 6.0.13, dalla sigla della sua iscrizione presso i registri della Scuola Enologica di Conegliano, dove il professor Luigi Manzoni tra gli anni venti e trenta del secolo scorso brevettò numerosi incroci di vite. Questo, il più riuscito, è nello specifico ottenuto da uve Pinot Bianco e Riesling Renano).

Una volta ottenuto un incrocio, in teoria è sufficiente farlo riprodurre per via vegetativa per dare vita ad un nuovo vitigno.

In teoria però, perché esiste anche il fenomeno della mutazione gemmaria, un fattore di mutazione naturale, che modifica in questo caso alcune gemme, dando origine a sua volta ad un vitigno diverso nelle caratteristiche ma uguale nel patrimonio genetico al vitigno originario.

È il caso per esempio dei Pinot Bianco e Pinot Grigio, mutazioni genetiche del Pinot Nero, vitigno molto soggetto a questo tipo di fenomeno.

Esiste poi un ulteriore metodo di creazione dei vitigni, in Italia praticamente inutilizzato, ma di grande interesse in alcune nazioni (ad esempio Canada, Gran Bretagna e Germania), quello degli ibridi. Gli ibridi non sono altro che incroci tra viti non solo di specie ma di varietà diversa, per esempio tra viti europee (vitis vinifera) e americane (vitis labrusca). Il risultato dà piante più resistenti alle malattie e a condizioni climatiche avverse, ma l’uva che ne deriva è di gran lunga peggiore rispetto a quella della vite vinifera.

Ad ogni buon conto, dai metodi sopra enunciati derivano tutti i diversi tipi di vitigni che oggi conosciamo, e anche quelli che non conosciamo più perché estinti e quelli nuovi che verranno creati negli anni futuri.

Quanti sono? Stabilire un numero preciso è impossibile, vuoi per la scarsa conoscenza dell’ampelografia in molte zone vinicole di paesi emergenti, vuoi per la difficoltà di catalogarli tutti.

Ti lascio però qualche numero, giusto per avere un'ordine di grandezza.

Nel 1877 (e quindi in epoca pre-fillossera) il conte Di Rovasenda aveva catalogato nella sua tenuta Vercellese la ragguardevole cifra di 3350 varietà diverse di vite, anche se è difficile asserire che queste sarebbero rimaste tali se vi fosse stata già allora la possibilità dell’analisi del DNA.

La fillossera diede un colpo tremendo alla viticoltura di tutta l’Europa, distruggendo completamente chissà quanti tipi di uve, e costringendo i produttori dell’epoca a rifugiarsi verso varietà di uve più resistenti, produttive e economicamente più vantaggiose (pensare di portinnestare tutti i tipi di vitigni presenti prima dell’epidemia fillosserica è pura utopia, vuoi per l’impossibilità pratica, vuoi per la mancata conoscenza delle diverse varietà presenti, vuoi per l’incompatibilità tra alcune radici americane e alcune viti europee, ecc).

Ad oggi sappiamo che nel Catalogo Nazionale della Varietà di Vite Italiano sono presenti 383 vitigni autoctoni (o almeno, questi erano l’ultima volta che abbiamo controllato), mentre in totale sono circa 800 quelli presenti in tutto il mondo; numeri, questi, che semmai ce ne fosse stato bisogno, certificano ancora una volta la grande importanza di varietà e tipologie del patrimonio vinicolo Italiano.


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