10 giugno 2022

Lunga vita al vino italiano! (54)

Ha suscitato molto scalpore, anche su queste pagine, la recente notizia della chiusura della storica Trattoria Cerri di Piazza Giovanni XXIII.

E al di là delle motivazioni personali che hanno portato l’attuale proprietà a prendere questa decisione (che rispetto e non giudico, sia chiaro), la sensazione collettiva è stata unanime: un pezzo di storia, tradizione e cultura popolare che chiude i battenti, è sempre e comunque una grave perdita per la collettività.

Se poi ci aggiungiamo che a Cremona e provincia (ma sono certo sia così in quasi tutta la Penisola), ogni volta che chiude un locale tradizionale, ne apre uno etnico (All You Can Eat cino-giapponese, kebab, poke, ecc.) risulta abbastanza chiaro che l’impoverimento culturale della nostra società sta raggiungendo livelli preoccupanti.

Ma cosa c'entra tutto questo con una rubrica intitolata “Da Cremona alla Scoperta del Vino”?

A parer mio c’entra, eccome.

Se non altro perché anche il mondo del vino Italiano sta vivendo un fenomeno analogamente preoccupante.

Lo spunto per questa mia riflessione, infatti, oltre alla già citata chiusura della Trattoria Cerri è l’acquisizione, da parte del gruppo finanziario francese EPI, della tenuta Isole e Olena di San Donato in Poggio, famosa e prestigiosa azienda nel cuore del Chianti Classico.

Acquisizione che avviene a 5 anni di distanza da quella ben più clamorosa di Biondi-Santi, l’azienda che nel 1865 ha inventato il Brunello di Montalcino (per la cronaca, oltre a questi due “giganti” toscani, nel portafoglio di questa finanziaria figurano anche due maison francesi di Champagne, Piper-Heidsieck e Charles Heidsieck).

Ora, probabilmente mi si accuserà di eccessivo campanilismo e nazionalismo, ma personalmente ritengo che ogni volta che un capitale straniero acquisisce un’eccellenza italiana, sia tutta la nostra società ad uscirne sconfitta.

Non voglio essere frainteso, non ho le fette di salame (cremonese naturalmente, che ritengo il migliore del Mondo) sugli occhi, e so che questo è un processo che va avanti da decenni e che ha già investito pressoché tutti i settori produttivi nazionali: il siderurgico (lunga vita al Cavaliere!), il tessile, l’automobilistico, addirittura il mondo del calcio (quante squadre di serie A sono ancora di proprietà italiana?), e non ultimo tutto il settore dell’enogastronomia.

Però consentimi, amico mio lettore, amica mia paritaria, di sollevare sommessamente un grido di allarme.

Ritengo che ci siano professioni e professionalità che rappresentano un patrimonio culturale fondamentale per la salvaguardia della nostra identità, e che siano un viatico del passato irrinunciabile per costruire il nostro futuro.

Queste professioni e queste professionalità devono a mio avviso essere tutelate da una classe dirigente purtroppo totalmente sorda e assente rispetto a queste problematiche.

La Storia e la Cultura di un Paese (tutto rigorosamente con la maiuscola) si tramanda e salvaguardia anche grazie alle piante che vengono coltivate, gli animali che vengono allevati, il cibo e il vino che vengono prodotti.

Che in Italia sono differenti da Nord a Sud, da Est a Ovest, da Regione a Regione, da Provincia a Provincia, da Comune a Comune, addirittura da casa a casa.

E se tutte queste attività e peculiarità vengono svendute a qualsivoglia capitale straniero, che ha come unico scopo quello di renderle redditizie e capaci di generare profitto, allora risulta chiaro anche al più convinto fautore della supremazia del libero mercato che a perderci sarà sempre e soltanto la nostra identità, la nostra cultura e la nostra storia.

Ma, come già accennato poc’anzi, queste preoccupazioni devono giungere alle nostre istituzioni a livello centrale, che hanno il dovere morale di mettere in atto azioni politiche a tutela di chi ancora porta avanti queste tradizioni e questi mestieri.

Altrimenti il singolo vignaiolo e la piccola azienda agricola famigliare si troverà costretta, prima o poi, a cedere alle sirene delle grandi concentrazioni di capitali, che sono le uniche ad avere la forza per poter competere in un mercato sempre più globale come l’attuale.

E allora si che si concretizzerà la provocazione di Carlin Petrini, sentita con le mie orecchie una dozzina di anni fa a Brescia, durante la presentazione di un suo libro. Il carismatico fondatore di Slow Food stupì la platea definendo il Barolo “il più buon vino Macedone. Perché - continuò il gastronomo Piemontese, già Uomo dell’Anno per il Time nel 2004 - qualcuno è ancora convinto che il Barolo sia un vino Piemontese? Non è così! Se non fosse per i 5.000 Macedoni che ogni anno vengono in Langa a fare la vendemmia, di Barolo non ne esisterebbe più neanche una bottiglia”.

Ecco, quella che all’epoca mi parve solo una (giusta) provocazione, oggi mi sembra sempre più un futuro già scritto e forse irreversibile. Ma finchè avrò voce farò di tutto perché ciò non accada.

Lunga vita al vino Italiano!

Andrea Fontana


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