14 aprile 2023

Miti e leggende: l'Amarone (79)

E indubbio che in questi ultimi 10 anni quella che Alessandro Borghese definisce “la Santa Trinità” della cucina Romana (vale a dire il trittico Carbonara-Amatriciana-Cacio e Pepe) sta riscuotendo un successo mai avuto in passato.

Parafrasando questa definizione che mi piace molto, se dovessi chiederti qual è secondo te, amico mio lettore, amica mia paritaria, la Santa Trinità del vino Italiano, sono certo che la risposta sarebbe quasi univoca e, in rigoroso ordine alfabetico), mi diresti Amarone, Barolo e Brunello di Montalcino.

Quest’oggi voglio parlarti proprio dell’Amarone e delle leggende accanto ad esso.

Partiamo dall’inizio: l’Amarone è il vino più significativo prodotto nella Valpolicella, la valle a ridosso della città di Verona, che pare derivi il proprio nome dal latino “Vallis-polis-cellae”, vale a dire “valle dalle molte cantine”.

E’ ottenuto principalmente da uva Corvina con saldo di Corvinone e Rondinella e altre uve autorizzate (in passato si impiegavano molto la Negrara e la Molinara, oggi quasi soppiantate dall’Oseleta o anche dalla Croatina).

L’Amarone prevede un lungo affinamento in botte (minimo due anni) oltre al tradizionale appassimento delle uve, che determina le sue caratteristiche principali: elevato grado alcolico (minimo 14°), grande ricchezza di frutto, percettibile residuo zuccherino.

Ma quello che probabilmente è più curioso da raccontare è che la leggenda narra che l’Amarone sia nato... per errore!

Facciamo un passo indietro e torniamo al secolo scorso: in quegli anni i vini di maggior successo avevano una forte componente zuccherina, in altre parole, erano dolci. A partire dallo Champagne (che infatti si gustava nella famosa “Coppa Pompadour” -modellata, si dice, sulla forma del seno di Madame De Pompadour, considerato perfetto) fino ad arrivare alle zone vinicole di maggiore storicità dove il vino dolce presente era sempre il prodotto principale.

In Valpolicella lo scettro spettava dunque al Recioto della Valpolicella, vino dolce ottenuto dopo aver appassito le uve nei fruttai, che poi veniva fatto fermentare (nella fattispecie si utilizzavano le parti più esterne del grappolo, di maggior qualità perché più appassite, chiamate orecchie -recie in dialetto veneto, da qui il nome) e venduto quando ancora presentava un forte residuo zuccherino.

La leggenda, come ti dicevo prima, narra che nel 1936, tale Adelino Lucchese, capo cantiniere della Cantina Sociale della Valpolicella (oggi Cantina Valpolicella Negrar), abbia trovato in cantina una botte di Recioto Amaro (questo il suo nome commerciale, benché fosse in realtà dolce) “dimenticata” da qualche anno. Al suo assaggio, pare che abbia esclamato (ma altre versioni dicono che l’affermazione sia invece del Presidente della Cantina, Gaetano Dall’Ora): “ma questo non è amaro, è Amarone!” e da qui è nato il suo nome.

Ma leggende a parte, tecnicamente cos’era successo? Semplicemente, il Recioto contenuto in quella botte aveva pian piano sviluppato tutti gli zuccheri residui in alcol, producendo così un vino secco di alta gradazione alcolica (oggi è raro trovare Amarone sotto i 15° e spesso si raggiungono i 16°-17°).

Dalla sua “nascita” alla piena affermazione commerciale sono però passati alcuni decenni, durante i quali il Recioto continuava ad essere il prodotto più apprezzato dal mercato e l’Amarone era una sorta di “sottoprodotto”, che faticava a ritagliarsi il proprio spazio. E infatti, il disciplinare di produzione

principale è rimasto fino alla metà degli anni ‘80 quello del “Recioto della Valpolicella DOC”, a cui venne semplicemente aggiunto il sottoprodotto “Recioto della Valpolicella DOC Amarone”, quasi a simboleggiare quanto fosse più significativo il primo del secondo.

Poi le cose sono andate come sappiamo: l’Amarone ha ottenuto prima la DOC e poi la DOCG; il gusto del mercato è cambiato ed ha iniziato a privilegiare i vini secchi, strutturati, tannici, alcolici, e l’Amarone è diventato, appunto, uno dei principali vini rossi Italiani e fra i più apprezzati vini del Mondo.

Ed è così che da un errore è nato un mito enologico, che ancora oggi conserva immutati fascino, successo e riconoscimento.

Andrea Fontana


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