16 settembre 2023

Rivoluzioni, miti e leggende di sua maestà il Barolo

Se c’è un vino che nell’immaginario collettivo rappresenta il punto più alto dell’enologia Italiana, questo è indiscutibilmente il Barolo.

Ma la sua storia non è sempre stata gloriosa e nemmeno un’ascesa lineare e regolare; tutt’altro. La ripercorro brevemente oggi, amico mio lettore, amica mia paritaria, con la certezza che per analizzarla a fondo servirebbero molte più righe di quelle che scriverò, e che molto di più si può dire e analizzare.

Intanto mettiamo nero su bianco alcuni punti fermi, non necessariamente scontati: il Barolo è un vino rosso a Denominazione di Origine Controllata e Garantita, ottenuto da 100% uve nebbiolo, affinato per un minimo di tre anni, di cui due in botte, e prodotto in soli 11 comuni delle Langhe (Barolo, Monforte d’Alba, Castiglione Falletto, Serralunga, La Morra, Novello, Diano d’Alba, Cherasco, Roddi, Verduno e Grinzane Cavour), nel Piemonte meridionale.

La Prima citazione ufficiale dell’uva nebbiolo coltivata a Barolo è datata 1268, ma bisogna attendere fino a metà dell’800 per avere notizie di un vino che possa rimandare al Barolo. La sua nascita è strettamente legata alla storia del Piemonte e all’Unità d’Italia, grazie al ruolo fondamentale che ebbero sia gli esponenti della famiglia sabauda (Re Carlo Alberto di Savoia ne era un grande estimatore, e suo figlio Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, è stato il fondatore della Tenuta Fontanafredda a Serralunga) sia Camillo Benso Conte di Cavour, che assieme alla Marchesa Colbert pare abbia imbottigliato nel 1844 le prime bottiglie di Barolo della storia.

Fino alla prima metà del XX secolo, tuttavia, il Barolo è tutto fuorché un prodotto di successo e di prestigio. Le tecniche produttive di quegli anni prevedono una produzione di uva per pianta non controllata, lunghissime macerazioni sulle bucce (addirittura 50-80 giorni) e altrettanto lunghi affinamenti in legni molto grandi (15-20-25 ettolitri) e soprattutto molto vecchi. Ne risulta un vino austero, scontroso, tannico, che abbisogna di moltissimi anni per smussare le asperità della gioventù e acquisire eleganza, piacevolezza e bevibilità.

Certo, bevuti dopo alcuni lustri, quei Barolo regalano emozioni e sensazioni inenarrabili. Ma questo è un privilegio riservato a pochissimi eletti, che hanno la pazienza e la competenza di aspettarlo. La stragrande maggioranza del mercato Italiano dei vini di quegli anni è ancora appannaggio dei prodotti grezzi, rustici, semplici, “da tavola”. E difatti il Barolo è un vino semi sconosciuto appena si esce dal territorio di origine, e i vini più richiesti dell’epoca sono il dolcetto, la barbera e la freisa, più leggeri e soprattutto economici.

In questo panorama, il Barolo è gioco forza penalizzato, e la leggenda vuole addirittura che le bottiglie di Barolo venivano omaggiate ai clienti che acquistavano le damigiane di dolcetto o barbera, e pare che da questa consuetudine siano nati famosi piatti come il Risotto al Barolo o il Brasato al Barolo: in effetti, è logico immaginare che le massaie dell’epoca, per sfumare il riso o marinare la carne, utilizzassero un vino che gli era stato regalato, dando origine così involontariamente ad un equivoco che resiste ancora ai giorni nostri (in tutta onestà, chi oggi utilizzerebbe in cucina un vino nel frattempo diventato pregiato e costoso?).

Ma torniamo a noi. Dopo quasi un secolo di difficoltà commerciali e di vendita, arriva la svolta. Dagli anni ‘60 ai primi anni ‘80 del ‘900, infatti, pur con alti e bassi, la società cambia e, di conseguenza, cambiano le occasioni e i momenti di consumo. Il vino si trasforma da alimento base della dieta povera contadina e bevanda di piacevolezza, da consumare fuori casa, ma il Barolo purtroppo si fa trovare impreparato. E’ sì un vino ricco, importante, austero, come chiede il nuovo mercato, ma in gioventù si presenta troppo chiuso e scontroso per accoglierne i favori, e così le vendite continuano a latitare.

In questa situazione, nasce,cresce e prolifera quel movimento, per certi versi rivoluzionario, chiamato “Barolo Boys”.

Chi sono i Barolo Boys?

Sono i figli dei produttori di Langa che negli anni ‘80 hanno tra i 20 e i 30 anni. Sono giovani che vedono i loro padri spaccarsi la schiena in vigna e in cantina per poche migliaia di lire, vittime di un sistema economico ancora basato sulle grandi cantine che acquistano l’uva dei contadini e la vinificano, dove a farla da padrone sono mediatori, sensali, acquirenti e venditori, e il piccolo contadino non ha appunto nessuna voce in capitolo.

Questi giovani,che rispondono al nome di Elio Altare, Domenico Clerico, Chiara Boschis, Giovanni Manzone, Giorgio Rivetti, Enrico Scavino, Roberto Voerzio, Matteo Correggia, Franco Minuto, Luciano Sandrone, Renato Cigliuti, Claudio Conterno, Renato Corino e molti altri, iniziano a interrogarsi su come fare a cambiare le cose, e hanno il sogno di traghettare il Barolo nell’olimpo dei vini mondiali.

Per farlo, decidono di imparare dai più grandi e blasonati vini rossi mondiali, e introducono nuove tecniche colturali e di cantina, spesso scontrandosi apertamente con i propri padri.

La loro storia è ottimamente raccontata nel documentario omonimo “Barolo Boys” (disponibile su Prime Video), per cui non sto qui a entrare troppo nel dettaglio.

Sta di fatto che a metà degli anni ‘80 iniziano ad arrivare sul mercato vini più ricchi, concentrati, immediati, rotondi, fruttati, che sono la conseguenza di alcune pratiche oggi comuni ma all’epoca rivoluzionarie, come il diradamento estivo dei grappoli e la vinificazione in barrique o tonneaux.

E’ una svolta epocale, e come tutte le rivoluzioni lascia sul campo morti e feriti. C’è chi vede i rapporti famigliari incrinarsi, chi addirittura viene diseredato e tutti vengono tacciati di eresia e di incapacità di tramandare la vera tradizione langarola, tanto che lo scontro con i cosiddetti “tradizionalisti” è inevitabile (celebre è una bottiglia di Barolo 1998 del compianto Bartolo Mascarello dall’eloquente nome “No Barrique No Berlusconi”).

Il mercato e la critica enologica però premia questa svolta, e anche grazie al commerciante italo-americano Marc de Grazia (oggi produttore di vino sull’Etna con la sua Tenuta delle Terre Nere), questi vini e questi produttori diventano ben presto mitici, ricercati e osannati in tutto il Mondo, a cominciare ovviamente dagli Stati Uniti.

Come però succede spesso alle rivoluzioni, a un certo punto gli stessi rivoltanti iniziano a tornare sui propri passi e a reintrodurre alcune pratiche tradizionali (una su tutte: l’utilizzo dei legni grandi) fino a raggiungere un punto di equilibrio fra tecniche nuove (pigiadiraspatrici, diradamento, ecc.) e tecniche tradizionali (botti grande, macerazioni lunghe -ma non lunghissime-, ecc.). Il risultato è che oggi il mondo del Barolo ha fortunatamente superato la spaccatura degli anni ‘90, e “modernisti” e “tradizionalisti” convivono pacificamente, arricchendo anzi di sfaccettature, interpretazioni e personalità la proposta di bottiglie presenti sul mercato.

A prescindere di chi sia il merito, oggi il Barolo ha raggiungo il suo obiettivo: è diventato un vino di fama mondiale, venduto a cifre decisamente importanti, e le stesse Langhe sono preda negli ultimi anni dell’attenzione dei grandi fondi di investimento e dei capitali stranieri, arrivando a delle cifre astronomiche di compravendita dei terreni (per le colline più esposte si parla di 2 milioni di euro a ettaro).

Mai come oggi, quindi, possiamo davvero definire il Barolo “Il Re dei Vini, il Vino dei Re”.

Andrea Fontana


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